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Land Code di un tempo bianco e valente

Arte - 20 Gennaio 2025



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La personalissima lettura di Mimmo Di Caterino di Land Code di Bianco Valente al Museo del Novecento (ndr).


Se l’uomo è capace d’amare, deve essere messo al suo posto supremo. La macchina economica deve servirgli, anziché servire lui ad essa”. Erich Fromm, L’arte di amare, 1956


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Al Museo del Novecento a Castel Sant’Elmo vado a confrontarmi con il progetto Land Code del duo d’artisti Bianco-Valente (Giovanna Bianco e Pino Valente): il lavoro rientra nella politica d’acquisizione del Museo, nel nome del racconto della produzione d’artisti attivi a Napoli. Potrei chiedermi perché questo Novecento non sia il mio, ma non lo farò, a ciascuno il suo percorso, il suo universo e il suo Karma.


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Nella pratica non posso che leggere Land Code come processualmente e progettualmente novecentesco.

Il lavoro, che nella percezione contemporanea rimanda a cose come un QR CODE e a come ci limiti e controlli, si presenta come una citazione di testimonianze musive romane, sul modello delle geometrie ornamentali mosaicate nelle pavimentazioni di Pompei ed Ercolano.


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La virtualità percettivo neuronale s’accorda a una tecnica antichissima che rimanda a un sistema linguistico contemporaneo: tutto visibile, palpabile, comprensibile e contemplabile nel nome di una progettualità artistica che nel suo essere comunicazione nega la percezione e la sensazione.


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Nessuna emozione nell’arte contemporanea, solo celebrazione d’intelletti creativi che prendono atto dell’esistente e lo propongono così com’é, ma ditemi la verità: in cosa non dovrei pensare che questo lavoro valga come arredo e decorazione d’interno?

Come mai la questione dialettica su cosa sia o meno arte, si è ridotta in tutta la sua evidenza al portfolio dell’artista?


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Per fortuna nel Museo del Novecento ci sono anche Maestri come il Maestro Giuseppe Pirozzi, che ho incontrato da poco da Gino Ramaglia (ancora lavora quotidianamente). Si ricorda di me in giro con mia mamma in carrozzino e legge il mio punto di vista sull’arte senza pregiudiziale, perché un tempo il confronto dialettico tra artisti era una necessità didattica e dialettica di posizionamento, oggi parrebbe estinto nel nome dell’omologazione.


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Probabilmente sono io un conservatore, ma a fronte di ricerche presenti nel Museo, come quelle di Salvatore Emblema, Augusto Perez, Calfo Alfano o Nino Longobardi e tantissimi altri, come si è arrivati a celebrare il code come elemento artistico (neanche decorativo) nel mondo reale citando il virtuale nel nome dei geometrici astratti di Pompei ed Ercolano?


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C’è qualcosa di disumanizzante dal punto di vista ambientale in corso, e gli artisti (ma anche chi li direziona e propone) nel nome della celebrazione del Sé paiono non notarlo e farsene inconsapevolmente portavoce.

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